di Salvo Barbagallo
Il Coronavirus ha messo in luce le disarticolazioni dell’Europa di oggi, le nocività di una centralità malamente condivisa, evidenziando maggiormente le serpeggianti volontà “sovraniste” di diversi Paesi aderenti all’Unione. La pandemia ha “scoperto” le debolezze di una “aggregazione” politica ed economica a carattere sovranazionale che fra poco meno di un mese, il 9 maggio prossimo, dovrebbe festeggiare il suo 53° anniversario.
Non andiamo alle origini di questa Unione nata dalla volontà di pochi illuminati che credevano in una prospettiva di comune solidarietà, ma registriamo i “disastri” che nel corso degli anni sono stati provocati dalla lotta per la conquista dell’egemonia da parte di chi volutamente ignora i misfatti che la fine della seconda guerra mondiale aveva tragicamente rivelato, dopo averne individuato chiaramente i responsabili. Quegli stessi “responsabili” ai quali i Paesi dell’UE si sono via via sottomessi, consegnando loro una leadership che condiziona l’attuale futuro.
La Sicilia – per non dire l’Italia nella sua “individualità” regionale meridionale da non portare a livello di grande area di produttività – ben poco ha avuto da questa “unione”, essendo considerata “marginale” nella sua periferica frontiera, ed essendo stata considerata territorio da sfruttare al quale non apportare benefici in quanto “mafioso”. In realtà un destino segnato, quello della Sicilia, grazie a una classe politica inetta e, sfortunatamente, grazie anche ad una collettività che non è riuscita ad alzare la testa e fare valere i propri diritti sanciti nella sua Autonomia da uno Statuto che fa parte integrante della Costituzione Italiana.
C’è stato un momento in cui si è aperto uno spiraglio, una “possibile” prospettiva quando qualcuno ha voluto ricordare la centralità dell’Isola nell’area del Mediterraneo, ipotizzando ben altre “coalizioni” di Paesi “omogenei” per cultura e tradizione, appunto quelli che si affacciano nelle acque dell’ex Mare Nostrum.
Era il lontano 1978 (sembra preistoria…) quando il presidente del Centro studi «CeSOET», prof. Antonino Tusa, intervenendo in un convegno lanciò la proposta della creazione di «Comunità mediterranea». Subito venne aggredito dalla stampa nazionale (da sinistra e da destra), e additato come filo gheddafiano e filo libico!
Annotando quanto sta accadendo ora in Europa, con la tragedia provocata dal Coronavirus, vogliamo riportare la sintesi di quell’intervento per mostrare quanto fosse importante la proposta, poi seguita in quel tempo, per altri versi e con altri alieni presupposti, da diversi politici di varia estrazione. Eccola:
La Storia ci insegna che l’Italia non ha avuto una politica estera lineare e chiara. L’alternativa delle alleanze istituite dal nostro Paese è stata, quasi sempre, risultato di previsioni sbagliate e comunque non sempre tempestive e correlate ai veri interessi economico-sociali del Paese. Tutte le conquiste coloniali hanno dato risultati paurosamente deficitari, camuffate da una vanagloria di prestigio, più apparente che reale. Nel nuovo momento storico che ha spazzato definitivamente ed irreversibilmente, per tutti i Paesi, il dominio coloniale, i rapporti tra gli Stati risultano più chiari e meglio finalizzati. Sono rapporti economici, sia pure alle volte determinati e prevaricati da minacce belliche e protetti da un capillare ed esteso parco missilistico, a favore e contro a quel mai soppresso egemonismo che, camuffato da motivi morali ed ideali, punta sempre verso un dominio economico. La costa settentrionale dell’Africa che si snoda da Suez a Gibilterra, conosce il lavoro intelligente degli italiani, specie quelli del Mezzogiorno, i quali hanno saputo valorizzare i terreni, spesso inidonei ad una coltivazione ordinaria, diffondendo agrumeti, uliveti, vigneti ed ortalizi, sulla base di una esperienza e di una tecnica collaudata da secoli. È sorto, conseguentemente, almeno in un certo momento storico, il timore che le colture della costa settentrionale dell’Africa potessero fare concorrenza alle similari produzioni del Sud d’Italia. Le travagliate vicissitudini delle varie guerre di conquista in terra africana, hanno fatto dimenticare che ogni dominio basato sulla forza, anche se nobilitato dal lavoro e da intraprese intelligenti, non può protrarsi indefinitivamente. L’evoluzione sociale di un popolo, come manifestazione diremmo naturale, suscita, in un certo momento, manifestazioni d’irredentismo che rendono difficili la presenza dei conquistatori, difficoltoso il lavoro che si svolge, precario il dominio anche se blando.
Ed ecco perché dall’Africa all’Asia, gli Stati coloniali hanno dovuto gradualmente concedere ai singoli popoli quella libertà che è l’attributo della forma più alta e più nobile d’indipendenza. Libertà questa, però, che si può pienamente esplicizzare in pieno solo quando il livello economico del Paese indipendente raggiunge quei limiti che assicurano al popolo un civile tenore di vita. Ovviamente I’eliminazione di una sovrastruttura politico-economica, rappresentata dallo Stato coloniale, determina, almeno nella prima fase dei vuoti che rendono difficoltoso l’avvio di un processo economico. La mancanza di lavoratori indigeni qualificati, l’assenza di attrezzature tecnologiche avanzate, l’assenza di una classe imprenditoriale, aperta alle esigenze di mercato, costituiscono motivi di richiamo di “manager” stranieri. Il che suscita due ordini di conseguenze: particolari indirizzi gravitazionali degli ex Stati dominati dalla colonizzazione verso Paesi capitalistici (gli antichi dominatori); la necessità per i Paesi sottosviluppati tecnicamente ad integrarsi con Paesi socialmente ed economicamente sviluppati.
Gli errori di interpretazione sulle possibilità economiche dei Paesi della costa settentrionale dell’Africa, sia pure a posteriori risultano “ad enorme”. Tutto ciò scaturiva dall’ottica politica con cui venivano riguardati questi Stati. La propaganda, secondo da dove proveniva, esaltava o deprimeva le sollecitazioni a sbarcare nell’Africa mediterranea. Ha scritto uno storico imparziale, qual è Mach Smith, che “se i propagandoti avessero conosciuto i contadini del Sud, così come li conosceva Fortunato, si sarebbero resi conto che mai essi si sarebbero recati volontariamente in Libia, dove il suolo e il clima erano anche peggiori che in Sicilia e in Basilicata… ” (Mach Smith, Storia d’Italia, Laterza, pag. 405). Di rimando, verso il 1911, “la Libia era ormai diventata nell’immaginazione popolare un vero e proprio Eldorado, e in quello stesso anno venne pubblicato su di essa un libro intitolato ‘La nostra Terra promessa”‘(pag. 406). «È storia del passato, che pur potendo offrire motivi di riflessione, non consente alcuna estrapolazione per giudicare la situazione attuale e formulare previsioni per il prossimo futuro. Il petrolio degli arabi ha radicalmente modificato taluni rapporti di forza tra Paesi poveri e Paesi ricchi ed acuito i contrasti tra Occidente ed Oriente. Comunque, ogni considerazione che si deve formulare, valida per l’economia italiana, deve muovere dall’attuale realtà che caratterizza sia i Paesi che si snodano da Suez a Gibilterra e sia l’Italia, protesa a raggiungere un migliore equilibrio socio-economico.
È stato scritto da tempo, divenendo quasi uno “slogan”, che l’Italia costituisce una testa di ponte verso l’Africa! A questa espressione possono essere dati diversi significati. Uno, meno lusinghiero è quello di considerare la nostra Penisola e le nostre Isole, come un tramite d’unione — o meglio di passaggio — nei trasporti, per terra o via mare, dei prodotti del centro Europa con l’Africa e viceversa per le produzioni da importare. Altro significato, più lusinghiero, è quello che riguarda i traffici tra l’Italia e l’Africa. Quest’ultima interpretazione però risulta bloccata dalla partecipazione italiana alla Comunità Europea. L’esempio recente più eloquente di questo tipo di vincolismo che invischia l’azione dell’Italia si ha in atto nel rapporto tra l’Italia e la Tunisia per quanto riguarda la pesca nel Mediterraneo. Il nuovo trattato, in base alle norme comunitarie, può essere rinnovato solo dalla CEE! Gli Stati della costa settentrionale africana, di rimando, ritrovano molti benefici della Comunità Europea, in quanto, trainati dalla Francia, costituiscono quegli “Stati terzi” che ricevono trattamenti di favore. La situazione lambisce i limiti dell’assurdo e l’Italia, come altri Stati della Comunità, minaccia di essere sommersa da un mare di latte, di carne e dei “surplus” cerealicoli denunziati dalla Francia e dalla Germania. Molte delle nostre produzioni, come quelle agrumicole e vinicole, subiscono impunemente la concorrenza di altri Stati produttori, non ancora partecipanti alla CEE. È caduta conseguentemente l’illusione della nostra posizione monopolistica, e quindi di vantaggio, che in sede Comunitaria avevano in partenza.
Sorge quindi la necessità di correggere l’esclusivo indirizzo della politica economica estera italiana, puntando, con gradualità, ma con idee chiare, verso la costituzione di una “Comunità Mediterranea”, in cui si integrino le rispettive economie, utilizzando il Mediterraneo come la più economica via di comunicazione. Ed è questa una via, se si riflette, ben capace di dare al Mezzogiorno d’Italia la sicura pista di decollo per il bene di tutti i popoli rivieraschi. Le brume del Nord potranno dissolversi al sole del Sud! Ed il Mediterraneo, non più “Mare nostrum”, potrà diventare la sede per rinverdire traffici e rapporti economici su parità di diritti per tutti.
Appare chiaro che in una Comunità così ipotizzata il ruolo della Sicilia assumerebbe una indiscutibile valenza. Di queste ipotesi, nella logica corrente, diventa “pericoloso” anche parlarne… Sorge, dunque, il sospetto che la Sicilia non debba “esportare” neppure idee, oltreché prodotti. Dicendo ciò non vogliamo certo cadere nel facile, e spesso strumentalizzato, “sicilianismo”. Certe realtà dell’isola sono sotto gli occhi di tutti quantomeno di quanti “vogliano” vedere. E sorge pure il sospetto (che non è “vittimismo”) che nella mappa della grande economia la Sicilia è stata, e viene ancora considerata una colonia, un territorio che deve “consumare” e non produrre, per non turbare equilibri complessivi. Se così fosse (ed ottimisticamente lasciamo il condizionale) per la Sicilia non c’è un futuro, e la collettività (oltre cinque milioni di abitanti) è destinata ad attendere un avvenire che non verrà mai.